I dialoghi del corpo
Adriana Schnake, psichiatra cilena, attraverso la terapia della Gestalt, propone un vero e proprio approccio olistico alla persona malata in cui la relazione terapeuta-paziente ritrova le radici nella relazione io-tu di Buber. Adriana afferma: “la nostra missione è, in primo luogo, aiutare colui che domanda aiuto ad essere consapevole del fatto che quel che gli sta succedendo ha a che vedere con se stesso, e che per quanto grave e complicato sembri, quel che gli accade sta informandolo di qualcosa di definitivamente importante per la sua vita”. L’autrice, durante la sua esperienza clinica, ebbe la prima scoperta: le persone parlano della loro malattia come se non fosse qualcosa di proprio. La persona malata non è più padrona neanche del suo stesso corpo, ciò che parla al suo posto è il suo quadro clinico. Quanto più grave è la loro malattia, tanto più i pazienti preferiscono sapere in termini medici ciò che li affligge.
Il paziente è un informatore, cui i medici guardano con attenzione per valutarne il grado di credibilità. Tuttavia la credibilità di chi sta sostenendo una battaglia con una parte di se stesso, con sintomi che lo opprimono e dai quali vuole liberarsi, è molto ridotta. Ciò non significa che tale informatore mente; succede che egli non sa, né crede, che ciò che gli fa male o che si manifesta in maniera così inaccettabile, sia parte di sé, ma crede che ciò che fa male sia semplicemente una malattia. Man mano che aumenta la sensazione d’impotenza e di abbandono, i pazienti riducono la capacità di percepire che ciò che fa male o che disturba è parte di loro; questo li rende cattivi informatori e contemporaneamente li allontana da se stessi. L’autrice pone l’attenzione sulla relazione tra corpo e malattia in funzione della propria visione del mondo, della propria credenza e della propria fede. L’unica credenza di tutto il testo, frutto dell’esperienza del lavoro con gli organi della Schnake, è che così come in qualsiasi cellula c’è la struttura genetica totale dell’individuo, in ogni organo c’è un’informazione totale della persona. “Come non permettere a quegli organi di parlare?”.
Fu così che l’autrice cominciò ad includere, nel progetto terapeutico, il lavoro con i sintomi o le malattie che affliggevano le persone che partecipavano ai gruppi. Tutti i partecipanti partivano da un’idea in comune: i conflitti della persona hanno qualcosa a che vedere con la malattia.
L’individuo non può esser separato in mente e corpo ed assume un posto centrale nella relazione terapeutica. Generalmente neanche dopo aver avuto diagnosticata una malattia grave, la persona crede possibile informarsi da sé di ciò che le sta succedendo: il medico è l’unico che sa. Nonostante ciò, il più elementare e antico principio della medicina ci insegna che i sintomi sono dei campanelli d’allarme; ma l’individuo non è in grado di ascoltare, e tanto meno di capire, tale avvertimento. Un punto chiave del pensiero dell’autrice è il superamento del dualismo cartesiano: la terapia è una sola e non dovrebbe esistere la psicoterapia separata dall’organoterapia. Nessuna azione sull’essere umano può scindere ciò che non ha alcuna possibilità di essere diviso o separato. Le parole fanno parte della cura e tramite il ridar voce all’organo malato è possibile conoscere una parte di sé, e aprire un dialogo, per capire cosa voler fare di ciò che è accaduto.
L’autrice propone un metodo d’ascolto e riconoscimento del corpo che cerca di alleviare la sofferenza, facilitando il contatto delle persone con il messaggio profondo proveniente dai loro organi malati. L’approccio clinico che ne consegue ha una portata che va oltre la semplice efficacia terapeutica. Per il paziente è la possibilità di un incontro con la parte di sé disconosciuta, relegata sullo sfondo; quella parte che per i più svariati motivi, la persona ha deposto nell’organo sofferente, sopravalutando, o viceversa, sottovalutando le funzioni naturali di questo. Talvolta il solo prendere coscienza di alcune situazioni problematiche consente di correggere un circolo vizioso che alimenta una “gestalt patologica”. Ciò avviene per una via molto semplice, quando si ricorre alla personificazione dei propri organi, attraverso la tecnica della sedia vuota con l’organo malato. Dialogando con i propri organi o parti di sé alienate, la persona si rappacifica con se stessa, riprende quell’equilibrio organismico alterato dalle sue personali credenze o invenzioni, sperimenta l’unità e riassapora la saggezza organismica.
L’autrice dedica un intero capitolo ad un excursus sul possibile significato delle più note malattie che affliggono l’essere umano, dalla tubercolosi all’AIDS. Tra le malattie prese in considerazione, l’accostamento tra il cancro e la depressione è interessante: “quando descriviamo la depressione in termini analogici, questa appare significativamente somigliante al cancro in un punto:il non riconoscimento dei limiti. Dal punto di vista del depresso tutto appare senza senso, senza forma e carente di valore; tale invasione di scoramento che non risparmia nulla, è come una vera e propria invasione di cellule neoplastiche, che non si localizza in alcun organo ma che comprende tutta la persona. Ecco perché le ho chiamate malattie dell’onnipotenza. Nell’impossibilità delle cellule cancerogene di accettare i limiti imposti dalla crescita normale, così come nella difficoltà dei depressi di accettare i limiti, le separazioni, le perdite, troviamo una cultura che propizia ogni volta di più la negazione dei limiti, esaltando l’essere autosufficiente, onnipotente, magnifico nella singolarità ed eccezionalità, senza tolleranza al fallimento né la perdita”. Secondo l’autrice, non c’è dubbio che la malattia rende sinceri, se si ascolta.
Perls, il padre della terapia della Gestalt, fu la prima persona che si preoccupò di combattere l’alienazione del corpo. Denunciò quel parlare in terza persona del corpo o delle sue parti (lo stomaco) invece di usare il pronome possessivo, per dire ad esempio il mio stomaco. A partire dal linguaggio, ci obbligò a riprendere possesso di noi stessi, a non metterci nelle mani di un altro come pacco di cui non conosciamo il contenuto. È necessario che le persone siano realmente prese in considerazione per quel che sono, e ciò non si ottiene aggiungendo ulteriori dati all’informazione che la persona sta dando sul suo quadro clinico o i suoi sintomi. Ciò di cui abbiamo bisogno è che la persona da semplice informatore diventi attore principale. È il paziente, colui che ha i sintomi, che deve essere al centro della relazione terapeutica, allo scopo di ricercare il senso della propria malattia, in quel preciso momento, e in quel determinato organo. Non è facile imparare ad ascoltare i messaggi del corpo e cominciare ad uscire da questa trappola divisionista che viene dallo sguardo medico e giunge fino a coloro che più ci amano, ogni qualvolta ci lamentiamo di qualcosa.
Il mondo che ci circonda si è riempito sempre più di rumori destinati a renderci sordi ai nostri messaggi, e il nostro corpo ha perso la capacità di rendersi conto persino delle cose più elementari. E’ difficile e faticoso mettersi in contatto con le vere richieste e necessità del nostro organismo, minacciato da quei terribili mostri, le malattie, che sono in agguato dietro qualsiasi debolezza, pronti ad attaccarci. Qui comincia il dramma: se le malattie sono i nostri nemici, non sapremo mai se hanno un messaggio positivo per noi. Il dovere terapeutico è fornire strumenti positivi, aiutare la persona ad avere elementi efficaci di auto-aiuto, per non continuare ad aumentare la sua alienazione. Sperimentare e conoscere il proprio corpo in modo diverso può contribuire a modificare il senso della malattia, e altresì a ridurre l’alta frequenza di malattie invalidanti e mutilanti, così come la paurosa incidenza di suicidi nell’età delle grandi crisi, dove il dialogo con sé, può mettere in contatto la persona con messaggi che non trovano riscontro nel mondo circostante.
All’istituto Gestaltico di Còrdoba (Argentina), hanno sviluppato un modello di insegnamento di “anatomia e fisiologia esperienziale”, come parte integrante dei corsi di specializzazione di Psicoterapia Gestaltica. L’obiettivo è favorire, nei terapeuti la possibilità di agire come io-ausiliario nei dialoghi gestaltici dei pazienti che presentano quei disturbi chiamati organici. In questo approccio si cerca di aiutare l’essere umano a diventare responsabile della propria malattia e a capire il messaggio che questa porta con sè, lavorando con l’intera struttura caratterologica di chi chiede un consulto. A volte, ciò che la persona scopre può fermare il processo, se questo non è ancora in una fase irreversibile. È l’ammalato colui che detiene la chiave definitiva della sua malattia; e questa chiave è nascosta tanto per lui quanto per coloro che vogliono curarlo. La persona malata non sa che è proprio lì che si trova il vero messaggio cui non è prestato ascolto. Siccome l’essere umano generalmente si arrabbia con la parte del suo corpo che lo limita o in qualche modo lo disturba, non parla con lei e ancor meno la ascolta. L’organo o la parte malata parla in molti modi e fintanto che il soggetto non capisce il messaggio, sono nemici. La persona, in guerra con la malattia, non facilita la sua cura: cerca solo di disfarsi di una parte di sé che non ha mai compreso o accettato del tutto. Se con l’approccio proposto spariscono sintomi, segnali o malattie che perturbano una persona, è perché il messaggio di quella malattia è stato capito, e in quella persona è stato possibile un cambiamento.
L’autrice propone numerosi casi clinici trattati con il metodo gestaltico.
Riporto a titolo esemplificativo il lavoro con un paziente, Samuel, con cancro ai polmoni.
“Samuel ci consulta dopo essere stato operato di cancro polmonare. Dopo un primo colloquio a Santiago, decide di partecipare ad un gruppo terapeutico a Chiloè. Gli spiego, il nostro punto di vista sulla malattia. Dico: non possiamo considerare la malattia come una nemica. Non possiamo litigare con lei senza sapere cosa è venuta a fare. Si è installata in una parte nostra. Presta ascolto a quel polmone in cui un gruppo di cellule si sono dichiarate in ribellione. Il segreto è il messaggio che ci volevano dare e che noi non abbiamo ascoltato; è un segreto assolutamente e totalmente unico, come le impronte digitali. Quell’organo, che nacque con noi, sa qualcosa di noi che non è disposto a farci dimenticare. In questo modo arriviamo a spiegare alla persona quanto sia importante mettersi in contatto in forma esperienziale con l’organo malato, descriversi e parlare al suo posto”.
In figura emerge la necessità di riappropriarsi del proprio organo e di mettersi nei suoi panni, attraverso le tecniche della terapia della Gestalt (drammatizzazione, sedia vuota), per poter iniziare a dialogare con lui, al fine di trovare un senso alla propria malattia. Per poter far questo, l’autrice ha creato un vero e proprio metodo di lavoro gestaltico, creando schede operative degli organi. Il lavoro consiste nella descrizione delle caratteristiche personali che un individuo somigliante ai nostri organi dovrebbe avere; caratteristiche dedotte dalla funzione, forma e consistenza di ciascun organo. In uno dei lati delle schede sono descritte le caratteristiche anatomiche e fisiologiche dell’organo, mentre sull’altro lato vi sono elencate le caratteristiche che avrebbe l’organo se fosse una persona, in accordo alla sua funzione e costituzione. E’ a partire da queste schede che iniziano i “dialoghi del corpo”.
Trovo affascinante questo metodo di lavoro e ritengo che abbia un’efficacia terapeutica rilevante per la persona malata, poiché offre la possibilità di ridare un senso alla propria esistenza e, dunque, alla propria malattia, partendo dall’idea esistenzialista di base che “non importa ciò che accade, ma ciò che noi facciamo di ciò che accade”.